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L’Avvocato nel processo minorile è sempre anche Avvocato del minore

Alla luce di una interpretazione sistematica ed evolutiva dell’Ordinamento vigente, come risultante per effetto delle normative sopravvenute nel tempo, deve ritenersi che l’Avvocato del padre o della madre, nei procedimenti minorili, abbia comunque l’obbligo di assumere un comportamento “protettivo” dei minori coinvolti: non solo in virtù del contratto di patrocinio stipulato con il cliente (che ha “effetti protettivi” verso i fanciulli coinvolti) ma anche per la propria funzione da attribuire al difensore nelle cause familiari: nelle dinamiche avversariali (formate dalle posizioni attorea e di convenuto), i figli sono in posizione “neutrale” e gli Avvocati, assumendo la difesa dei loro genitori, si impegnano a proteggerli e ad operare anche nel loro interesse. Nel processo di famiglia, dunque, l’avvocato è difensore del padre o della madre; ma certamente è anche difensore del minore. Per l’effetto, nella doverosa assistenza del padre o della madre, l’Avvocato deve sempre anteporre l’interesse primario del minore e, in virtù di esso, arginare la micro-conflittualità genitoriale, scoraggiare litigi strumentali al mero scontro moglie-marito, proteggere il bambino dalle conseguenze dannose della lite. In particolare, assumendo una posizione “comune” a difesa del bambino e non assecondando diverbi fondati su situazioni prive di concreta rilevanza. (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)

L’accesso al modulo risolutivo di cui all’art. 709-ter c.p.c. non è consentito al cospetto di qualsivoglia scontro genitoriale ma limitatamente agli “affari essenziali” del minore ossia istruzione, educazione, salute, residenza abituale; quanto a dire, per risolvere problemi di macro-conflittualità non essendo ipotizzabile un intervento del giudice per problemi di micro-conflittualità. In altri termini, non è dato ricorso al giudice per dirimere controversie aventi ad oggetto (guardando ai casi decisi in modo analogo), a titolo di esempio, “il taglio dei capelli del minore”, “la possibilità per un genitore di delegare un parente per prelevare il figlio da scuola”, “l’acquisto di un tipo di vestito piuttosto che un altro” e, così, la specificazione di dati di estremo dettaglio in ordine ai tempi di frequentazione. La richiesta ex art. 709-ter c.p.c. che non abbia ad oggetto affari essenziali per il minore è inammissibile per difetto d’azione. L’inammissibilità dell’istanza non pregiudica il minore. Al cospetto di una conflittualità patologica che travolge finanche aspetti per i quali non è dato ricorso al giudice, il tribunale, attestata la inidoneità di padre e madre a svolgere il ruolo genitoriale, deve apporre limiti ex art. 333 c.c. alla loro responsabilità genitoriale, delegando il Comune di residenza per svolgere le funzioni di rappresentanza del fanciullo in loro vece; in caso di micro-conflittualità, ciascuno dei genitori, ben può rivolgersi in tal modo all’ente affidatario che può indirizzare i coniugi verso uno dei servizi loro messi a disposizione (mediazione familiare, sostegno psicologico, supporto terapeutico, etc.). (Redazione IL CASO.it) (riproduzione riservata)

Fonte: ilcaso.it

In caso di immobili locati a fini commerciali, i canoni di locazione non percepiti devono comunque essere dichiarati e tassati

In caso di immobili locati a fini commerciali, i canoni di locazione non percepiti devono comunque essere dichiarati e tassati. Studiamo il caso.

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 20661 del 29/09/2020, ha chiarito i criteri di tassazione dei canoni di locazione, per un immobile non adibito ad abitazione, laddove non riscossi. Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Provinciale aveva rigettato il ricorso del contribuente avverso un avviso di accertamento per Irpef 2008. Contro tale decisione il contribuente aveva proposto appello e il giudice di secondo grado lo aveva accolto, ritenendo che l’Irpef non fosse dovuta in relazione ai canoni non riscossi. L’Agenzia delle Entrate aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, denunciando la erronea applicazione dell’art 23, comma 1, del Dpr, 600/73 (ora 26), previsto solo per gli immobili ad uso abitativo.

La decisione

Secondo la Suprema Corte la censura era fondata. I giudici evidenziano che il reddito degli immobili locati per fini non abitativi è individuato in relazione al canone di locazione almeno fin quando risulta in vita il relativo contratto. Con la conseguenza che, finchè non sia intervenuta la risoluzione del contratto, o un provvedimento di convalida dello sfratto, anche i canoni non percepiti per morosità costituiscono reddito tassabile. Il criterio di imputazione di tale reddito, rileva la Cassazione, è infatti in tal caso costituito dalla titolarità del diritto reale, a prescindere dalla sua effettiva percezione. Conclude dunque la Corte, affermando che, in caso di immobili locati a fini commerciali, i canoni di locazione non percepiti devono comunque essere dichiarati e tassati. Per questi redditi non è quindi prevista la tassazione secondo il principio di cassa, ma secondo il principio di competenza.

Osservazioni

Si evidenzia che, per i contratti di locazione di immobili abitativi sottoscritti a partire dal 1° gennaio 2020, la disciplina è stata di recente modificata. I canoni di locazione (per immobili abitativi) non incassati potranno non essere assoggettati a tassazione già a partire dal momento dell’intimazione dello sfratto per morosità, o dell’ingiunzione di pagamento. Così è stato infatti stabilito dall’art. 3-quinquies del Dl. 34/19, che ha modificato l’art. 26 Tuir. In coerenza con tale modifica normativa, è poi previsto che l’eventuale riscossione dei canoni non percepiti negli anni precedenti è soggetta a tassazione separata ai sensi dell’art. 21 del Tuir. E dunque con aliquota coincidente con la metà del reddito complessivo netto dei due anni precedenti. Quanto poi alle imposte versate sui canoni non percepiti, come da accertamento nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto, è comunque riconosciuto un credito di imposta di pari ammontare.

Per le locazioni ad uso diverso dall’abitazione (categoria catastale C1; D1; A/10 ecc.) persiste quindi oggi, in effetti, un principio di tassazione penalizzante. Il locatore è infatti in tal caso obbligato a dichiarare il reddito così come convenuto in contratto, anche se i canoni non siano stati effettivamente percepiti. E questo almeno fino a quando non si sia verificata una causa di risoluzione del contratto. E le imposte versate per i canoni non percepiti non possono essere recuperate sotto forma di credito d’imposta.

Fonte: ProiezionidiBorsa

Avvocato lavora quasi gratis? Scatta l’illecito disciplinare

L’avvocato che pubblicizza compensi simbolici per prestazioni professionali forensi, attraverso il canale internet, è assoggettabile a censura.

Lo ha stabilito la sentenza 21 giugno 2018 – 23 aprile 2019, n. 23 (testo in calce) emanata dal Consiglio Nazionale Forense, così avallando il dictum territoriale reso dal COA di Pescara.

Il legal marketing incriminato

Un avvocato, iscritto all’Ordine di Pescara, si era reso autore di una brochure che riportava il titolo “risarcimento danni medici”, e al proprio studio legale risultava riferibile un portale web denominato “risarcimento danni medici”, dai cui contenuti on line emergeva l’offerta di prestazioni professionali forensi “senza anticipi, senza spese, senza rischi e, soprattutto, in tempi brevissimi”, definibili, a quanto si poteva apprendere on line, “entro 240 giorni invece di attendere i soliti 4-5- 6 anni!” Dai contenuti telematici editati, si leggeva che lo stesso avvocato offriva ai clienti condizioni negoziali peculiari, quali il corrispettivo legato al risultato ottenuto, come pure avrebbe rinunziato al compenso nel caso ove il cliente non avesse incassato il risarcimento.

Il disciplinare davanti al COA

Il procedimento disciplinare principiava sia per la violazione del divieto di accaparramento della clientela che per la condotta offensiva della dignità e del decoro della professione, all’esito del quale veniva irrogata la sanzione della censura.

Il ricorso al CNF

L’avvocato impugnava la decisione al CNF, ancorando la difesa ai principi che regolano la liberalizzazione delle professioni, come pure quelli afferenti alla libertà di pubblicità informativa e all’abolizione del divieto di pubblicizzare titoli, evidenziando peraltro che l’opera di marketing contestata era riferibile alla pubblicità informativa e non comparativa.

La conferma del dictum territoriale

Secondo il CNF il COA di Pescara ha ritenuto, in modo corretto, costituire illecito disciplinare non lo svolgere la pubblicità professionale, che peraltro risulta illegittima nel suo aspetto informativo e promozionale, bensì le modalità, come pure il contenuto di un messaggio caratterizzato da evidenti sottolineature del dato economico e dalla marcata natura commerciale dell’informativa.

Il contrasto col decoro e la dignità professionale

Il CNF evidenza che la mancanza di conformità, della condotta contestata, alla dignità e al decoro professionale, non discende dalla circostanza della mera ricerca di clientela, bensì dall’indulgere ad autoreferenzialità mediante l’enfatizzazione delle attività dello studio, ed anche per l’impiegare mezzi suggestivi ed autoelogiativi preordinati ad attirare l’attenzione degli utenti non particolarmente avveduti. 

L’impatto del cd. decreto Bersani

Per quanto concerne le liberalizzazioni evocate dal ricorrente e riferibili alla Legge n. 248 del 2006 e al D.L. n. 138 del 2011, il CNF richiama il proprio precedente n. 8 del 2017, dove si era affermato che i principi in tema di pubblicità, di cui al decreto Bersani, pur consentendo all’avvocato di fornire specifiche informazioni sia in ordine all’attività che ai servizi professionali offerti, al contempo non legittimano una pubblicità indiscriminata avulsa dai dettami deontologici, giacché la peculiarità e la specificità della professione forense, impongono, in linea con la normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di giustizia, le limitazione connesse alla dignità e al decoro della professione, la cui verifica risulta dall’ordinamento affidata al potere dovere dell’ordine professionale. 

La congruità della censura

Infine, il CNF ha ritenuto congrua la sanzioni della censura, atteso lo spiccato e quasi esclusivo carattere commerciale e non informativo del messaggio pubblicitario esaminato e la conseguente evidenza della discordanza e della distanza, del relativo contenuto, rispetto ai principi deontologici.

CNF, SENTENZA N. 23/2019 >> SCARICA IL TESTO PDF

Fonte: Altalex.com