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Vietato pubblicare video e filmati della figlia minore sui social senza il consenso dell’altro genitore

Con ordinanza del 30 agosto 2021 il Tribunale di Trani si occupa della problematica inerente la pubblicazione di video e filmati di minori su social network, in particolare su TikTok, da parte di uno dei genitori senza il consenso dell’altro.

Il caso:  Tizio proponeva reclamo avverso l’ordinanza del giudice monocratico del Tribunale di Trani, con cui era stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto dall’odierno istante per la condanna di Caia, coniuge da cui era legalmente separato, alla rimozione dai social network ed inibizione di pubblicazione di immagini e video della figlia minore di nove anni in quanto pubblicati senza il consenso del padre; in particolare, il Tribunale fondava la decisione di inammissibilità sulla mancata indicazione del giudizio di merito da instaurarsi a seguito dell’eventuale accoglimento della domanda cautelare.

Ritenuto ammissibile il ricorso, il Tribunale accoglie il reclamo, ritenendo sussistenti i requisiti del fumus e del periculum, e dopo aver ricordato la normativa nazionale, comunitaria ed internazionale in materia di tutela dei diritti e dell’immagine dei minori, osserva quanto segue:

a) nel caso di specie, non vi è prova del consenso del padre alla pubblicazione di tali video: non può trovare accoglimento la tesi difensiva di Caia secondo cui Tizio era a conoscenza della pubblicazione degli stessi avendo egli accesso al profilo della moglie; la possibilità di visionare un profilo social non equivale ad accettazione della pubblicazione di video e foto ritraenti la figlia minore;

b) la proposizione del ricorso cautelare, seppur a distanza di qualche mese dalla pubblicazione, è espressione del dissenso o mancato consenso, del genitore, nè può tener luogo del consenso l’intervenuta transazione in sede di separazione regolante aspetti patrimoniali dei rapporti familiari e non contenente alcun riferimento alla pubblicazione di foto e video sui social da parte dei due genitori;

c)  come precisato dalla giurisprudenza di merito, l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati;

d) pertanto, il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network sicché l’ordine di inibitoria e di rimozione va impartito immediatamente, con contestuale condanna di Caia  a corrispondere la somma di € 50,00 per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima.

Fonte: AvvocatoAndreani.it

La scheda informativa del Garante per la tutela dei minori su Internet: lo sharenting

Il Garante per la protezione dei dati personali| con l’informativa del 14 marzo 2023, nell’affrontare la tematica dello sharenting, suggerisce ai genitori una serie di accorgimenti per limitare la diffusione online di contenuti che riguardano i propri figli.

Qui di seguito il contenuto dell’informativa:

“Con il termine “sharenting” si intende il fenomeno della condivisione online costante da parte dei genitori di contenuti che riguardano i propri figli/e (foto, video, ecografie, storie).

Il neologismo, coniato negli Stati Uniti, deriva dalle le parole inglesi “share” (condividere) e “parenting” (genitorialità. La gioia di un momento da condividere, pubblicando l’immagine dei propri figli, è un’emozione comprensibile, ma allo stesso tempo è necessario chiedersi se ci sono rischi nell’eccessiva e costante sovraesposizione online.

Lo sharenting è un fenomeno da tempo all’attenzione del Garante, soprattutto per i rischi che comporta sull’identità digitale del minore e quindi sulla corretta formazione della sua personalità. La diffusione non condivisa di immagini rischia inoltre di creare tensioni anche importanti nel rapporto tra genitori e figli.

È dunque necessario che i “grandi” siano consapevoli dei pregiudizi cui sottopongono i minori con l’esposizione in rete (e quindi tendenzialmente per sempre) delle foto dei figli, anche in termini di utilizzo delle immagini a fini pedopornografici, ritorsivi o comunque impropri da parte di terzi.

Per questo, già dalla Relazione annuale 2021, l’Autorità ha proposto di estendere a questi casi la particolare tutela assicurata dal Garante sul terreno del cyberbullismo.

È bene riflettere sul fatto che postare foto e video di diversi momenti della vita dei minori, magari accompagnati da informazioni tra cui l’indicazione del nome o l’età o il luogo in cui è stato ripreso, contribuisce a definire l’immagine e la reputazione online.

Ciò che viene pubblicato on line o condiviso nelle chat di messaggistica rischia di non essere più nel nostro controllo e questo vale maggiormente nel caso dei minori. Quando qualcosa appare su uno schermo, non solo può essere catturato e riutilizzato a nostra insaputa da chiunque per scopi impropri o per attività illecite, ma contiene più informazioni di quanto pensiamo, come ad esempio i dati di geolocalizzazione.

Chiediamoci sempre se i nostri figli in futuro potrebbero non essere contenti di ritrovare loro immagini a disposizione di tutti o non essere d’accordo con l’immagine di sé stessi che gli stiamo costruendo.

È bene essere consapevoli che stiamo fornendo dettagli sulla loro vita e che potrebbero anche influenzare la loro personalità e la loro dimensione relazionale in futuro.

Se proprio decidiamo di pubblicare immagini dei nostri figli, è importante provare almeno a seguire alcune accortezze, come:

– rendere irriconoscibile il viso del minore (ad esempio, utilizzando programmi di grafica per “pixellare” i volti, disponibili anche gratuitamente online)

– coprire semplicemente i volti con una “faccina” emoticon;

– limitare le impostazioni di visibilità delle immagini sui social network solo alle persone che si conoscono o che siano affidabili e non le condividano senza permesso nel caso di invio su programma di messagistica istantanea;

– evitare la creazione di un account social dedicato al minore;

– leggere e comprendere le informative sulla privacy dei social network su cui carichiamo le fotografie”

Fonte: AvvocatoAndreani.it

PUBBLICARE ONLINE IL FACSIMILE DELLA PROCURA È ACCAPARRAMENTO DI CLIENTELA

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7501/2022, hanno chiarito la portata applicativa dell’art. 37 del Codice Deontologico Forense (CDF), precisando che la pubblicazione online sul sito web di una copia facsimile della procura alle liti al fine di invitare potenziali clienti interessati a ricorrere in giudizio nei confronti di una azienda determinata, integra l’illecito deontologico dell’accaparramento di clientela sanzionato dal Codice.

L’art. 37, comma 4, CDF prevede che

“è vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico”

Sul punto si è più volte espresso anche il Consiglio Nazionale Forense, che tratta in modo piuttosto severo fattispecie potenzialmente riconducibili al menzionato illecito disciplinare, estendendo peraltro il concetto di “luoghi pubblici o aperti al pubblico” anche ai siti web e ai social media.

A tal proposito, con la sentenza n. 75 del 15 aprile 2021, il C.N.F. aveva ritenuto integrata la violazione disciplinare ex art. 37 CDF da parte dell’avvocato che offriva prestazioni professionali gratuite o a prezzi simbolici allo scopo di suggestionare il cliente sul piano emozionale, con un messaggio di natura meramente commerciale ed esclusivamente caratterizzato da evidenti sottolineature del dato economico. Nel caso di specie, infatti, il professionista aveva pubblicato nel proprio sito internet un annuncio nel quale decantava la propria attività ed evidenziava i prezzi bassi, precisi e chiari, nonché appuntamenti gratuiti e l’applicazione di tariffe esigue e la riscossione degli onorari a definizione delle pratiche.

Allo stesso modo, come previsto dalla sentenza del C.N.F. n. 38 del 25 febbraio 2020, “costituisce violazione del divieto di accaparramento di clientela, nonché lesione della dignità e del decoro della professione, il comportamento dell’avvocato che, senza esserne richiesto, offra una prestazione personalizzata, cioè rivolta a una persona determinata per uno specifico affare”

I fatti sui quali si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione, invece, prendono le mosse da una vicenda particolare, che però si lega concettualmente al filone giurisprudenziale del C.N.F., in linea con le pronunce poc’anzi menzionate.

Il caso di specie prende le mosse da un procedimento penale pendente per disastro ambientale a carico di una società determinata.

Ebbene, nelle more del giudizio, il legale della persona offesa aveva pubblicato sul sito internet di un comitato costituito ad hoc un modulo di adesione e un documento facsimile della procura alle liti, allo scopo di invitare eventuali interessati a aderire ad una class action nei confronti dell’azienda, compilando il conferimento d’incarico ed inviandolo al suo studio professionale, previo versamento di una modesta somma asseritamene imputata a spese vive.

Con un esposto del 9 ottobre 2015, l’azienda aveva quindi sollecitato l’intervento del C.O.A. di Trento lamentando la pubblicazione del facsimile della nomina dell’avvocato quale difensore della parte offesa nel procedimento per disastro ambientale presumibilmente causato dalla società.

Una volta ultimata l’attività istruttoria pre-procedimentale, con delibera del 6 novembre 2017 il Consiglio Distrettuale di Disciplina (C.D.D.) di Trento aveva disposto l’apertura del procedimento disciplinare nei confronti del professionista per violazione dell’art. 9 CDF sui doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza, dell’art. 37 CDF sul divieto di accaparramento di clientela (in particolare dei commi 4 e 5) e dell’art. 23 CDF sul conferimento dell’incarico.

Al termine del procedimento, il C.D.D. di Trento aveva sanzionato l’avvocato con l’avvertimento, ritenendolo “responsabile dell’addebito di cui al punto 2 del capo di incolpazione (violazione dell’art. 37, comma 4, CDF)”,prosciogliendolo dai restanti addebiti, rilevando come le testimonianze avessero confermato che “l’incolpato era a conoscenza del fatto che il proprio recapito professionale e i documenti (moduli di procura) a lui riferibili fossero reperibili sul sito internet del comitato e, inoltre, che l’incolpato assentì alla pubblicazione degli stessi sul sito”.

L’avvocato, successivamente, aveva impugnato la pronuncia dinanzi al Consiglio Nazionale Forense che, con sentenza n. 97 del 6 maggio 2021, aveva però rigettato il ricorso confermando l’orientamento del C.D.D. di Trento.

Una volta ricevuta la seconda pronuncia sfavorevole, il professionista aveva adito la Corte di Cassazione. In quell’occasione, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 7501/2022, hanno rigettato il ricorso confermando sia la pronuncia del C.D.D. di Trento, sia quella successiva del C.N.F., ritenendo il ricorrente colpevole della violazione dell’art. 37 CDF, in quanto la condotta da lui posta in essere sul sito web del comitato aveva integrato un accaparramento di clientela, peraltro già sanzionato dalla sentenza n. 93 del 4 ottobre 2019 del C.N.F., richiamata anche dalle Sezioni Unite.

In quest’ultima pronuncia, il Consiglio aveva ritenuto integrato l’illecito disciplinare dell’accaparramento di clientela nell’ipotesi in cui un professionista aveva contattato direttamente dei potenziali clienti offrendo la propria assistenza legale gratuita, allegando alla comunicazione stessa una procura alle liti da sottoscrivere ed inviare.

Nel caso deciso dalla Suprema Corte, la pubblicazione del facsimile della procura e il modulo di adesione, accompagnati dall’invito ad aderire alla class action, sono stati assimilati ad un’offerta non richiesta rivolta a potenziali interessati per uno specifico affare; con la differenza che, in questo frangente, il pubblico dei destinatari è estremamente ampio e non determinato, in quanto costituito dalla generalità dei visitatori del sito web.

Fonte: cfnews.it